Le speranze infrante

Scrivo queste parole dalla Cisgiordania con un profondo senso di dolore e di sconfitta, mentre i termini contrastanti “vittoria”, “genocidio”, “cancellazione”, “lotta eroica” e “conquista storica” ricorrono continuamente quando si parla del popolo palestinese e degli abitanti di Gaza in particolare.

La Striscia di Gaza mi ha incantato, come ha incantato molte persone che l’hanno visitata e hanno conosciuto il suo popolo. È stata una parte inseparabile della Palestina storica fino a quando non è stata tagliata fuori, dopo la creazione dello stato di Israele e l’espulsione dei palestinesi dal loro paese nel 1948-1949. Da lì è emersa come entità sociale e geopolitica distinta. La sua caratteristica principale è l’alta percentuale di rifugiati (circa il 75 per cento della popolazione), provenienti da decine di villaggi e città che Israele ha spopolato e distrutto.

La Striscia di Gaza che conoscevamo come un’entità geografica compatta di 365 chilometri quadrati era ancora abbastanza grande da contenere la diversità dei villaggi e delle città, dei nuovi quartieri e dei vecchi, della costa e delle colline, dei poveri e dei ricchi, dei rifugiati e dei nativi. Era piccola e affollata, così i suoi abitanti vivevano sempre di più l’uno sull’altro man mano che il loro numero cresceva, e si aveva la sensazione che tutti conoscessero tutti e che non ci fossero segreti. Era così piccola e con legami così stretti che sembrava che tutti gli abitanti prendessero parte attiva a qualsiasi evento politico, sociale e militare.

Nonostante il distacco, la distruzione e il passare del tempo, i rifugiati del 1948 e i loro discendenti hanno conservato i legami familiari, sociali e affettivi con i loro villaggi e le comunità perdute. Attraverso la realtà condivisa dell’isolamento e dell’espulsione, e nella compattezza del luogo, la popolazione di Gaza ha sviluppato i tratti distintivi collettivi di una comunità non immaginaria e non astratta: un umorismo tagliente, calore e ospitalità, ingegnosità, industriosità e solidarietà, ostinazione e diffidenza, coraggio e tenacia, insularità e curiosità, orgoglio del luogo e una ferita per il disprezzo degli altri.

Man mano che negli anni si aggravavano gli effetti della chiusura imposta da Israele nel 1991, che ha trasformato Gaza in una vasta struttura carceraria, l’industriosità e l’ingegno sono stati sostituiti da un’apatia e da un’inazione diffuse, accanto all’emergere di un’intraprendenza, di una creatività impressionante e di una vivida volontà di vivere. Con tutte queste contraddizioni e difficoltà, la Striscia di Gaza si è evoluta in un proprio quadro di appartenenza e lealtà patriottica, rappresentando allo stesso tempo tutti i palestinesi e la loro causa – una sorta di microcosmo palestinese – più di qualsiasi altro gruppo di palestinesi.

Mettere in luce

Circa due anni fa ho scritto: “Questo quadro unico è una delle spiegazioni (anche se non l’unica) della straordinaria resilienza del suo popolo e di come ha affrontato per decenni situazioni estreme e da incubo che sono difficili da immaginare, culminate in attacchi militari israeliani sanguinosi”. All’epoca, non potevo concepire gli orrori della guerra attuale.

Le guerre sono un’estensione della politica, e quella in corso è parte integrante della politica che Israele realizza da anni per ostacolare qualsiasi progetto nazionale palestinese verso la libertà e l’indipendenza. Tuttavia, non si può negare che questa guerra di distruzione sia stata innescata dagli attentati compiuti da Hamas in Israele il 7 ottobre 2023.

Gli attacchi di Hamas – contro soldati israeliani e installazioni militari, contro civili nelle loro case e durante una festa all’aperto – hanno frantumato l’arroganza di Israele e hanno messo in luce la sua debolezza strutturale come potenza militare. Qual è questa debolezza? È l’incapacità e il rifiuto di comprendere che il dominio sul popolo palestinese, negando la sua storia, i suoi diritti e la sua libertà, non è sostenibile in eterno. L’impenetrabile convinzione, l’arrogante certezza che sia possibile vivere una vita buona e felice e allo stesso tempo controllare, opprimere e imprigionare più di due milioni di palestinesi di Gaza – e trarre profitto da questa oppressione e questo sfruttamento – si è infranta il 7 ottobre quando molte centinaia di militanti di Hamas e un numero imprecisato di civili palestinesi hanno abbattuto le mura della più grande prigione del mondo, anche se solo per poche ore. Negli annali delle lotte di liberazione nazionale, questo potrebbe certamente essere considerato un risultato.

Tuttavia, il mio senso di sconfitta è forte e persistente, ed è triplice. Per decenni, i palestinesi e gli attivisti di sinistra in Israele, me compresa, hanno avvertito gli israeliani e gli stati che sostengono Israele che la continua oppressione e la spietata dominazione avrebbero portato a una terribile esplosione, dannosa per tutti, a spargimenti di sangue e a sofferenze intollerabili. Ma l’attrattiva dei privilegi e dei benefici materiali che Israele ha offerto agli ebrei (sia cittadini israeliani sia di altri stati) che si sono trasferiti nei territori palestinesi occupati si è rivelata più forte: ville a prezzi accessibili, sussidi ed esenzioni fiscali, migliore istruzione e assistenza sanitaria, terreni per l’agricoltura e altre attività commerciali concessi gratis o a un prezzo simbolico.

A questo si deve aggiungere che il territorio occupato è diventato un enorme laboratorio per l’industria israeliana delle armi e della tecnologia di sorveglianza all’avanguardia, due delle esportazioni più redditizie dell’economia israeliana. Le carriere e i redditi di persone di tutti i ceti sociali sono strettamente connessi a queste industrie legate all’occupazione e all’apparato burocratico necessario al mantenimento di un regime ostile e repressivo imposto a più di cinque milioni di palestinesi.

Gli ebrei israeliani sanno che qualsiasi accordo di pace richiederebbe pari diritti per i cittadini palestinesi di Israele e il risarcimento o la restituzione delle loro terre e proprietà rubate da Israele nel 1948, nonché l’equa distribuzione delle fonti d’acqua tra ebrei e arabi nell’intero paese.

La fine dell’occupazione e l’uguaglianza dei diritti sono quindi concepiti, consciamente o inconsciamente, come una minaccia alla vita e al benessere di molti ebrei israeliani. Tutto questo è stato rafforzato da teorie e retoriche razziste e messianiche. Queste teorie (compreso il sessismo) si sviluppano e si diffondono per giustificare lo sfruttamento, le discriminazioni di ogni tipo e la repressione, ma a un certo punto prendono vita propria, diffondendo veleno mentre un numero sempre maggiore di generazioni le considera come leggi naturali inconfutabili.

Ve l’avevamo detto

Noi di sinistra, quando abbiamo avvertito che non c’era nulla di “naturale” nel dominare un altro popolo, ci siamo appoggiati ai valori universali ed ebraici; abbiamo invocato lezioni storiche sul fallimento di un potere eccessivo; abbiamo cercato di appellarci alla ragione e di sostenere che è nell’interesse di Israele mettere fine all’occupazione. Invano. Io stessa ho scritto e detto più di una volta che potremmo raggiungere un livello di brutalità dal quale non c’è ritorno.

È stato un avvertimento che non potevo immaginare sarebbe diventato una profezia: per quanto l’attacco di Hamas sia stato ben pianificato e meticoloso dal punto di vista militare, ha anche scatenato la rabbia, personale e collettiva, accumulata da migliaia di persone e il loro desiderio di vendetta nei confronti degli israeliani (compresi i cittadini stranieri che lavorano in Israele e i cittadini palestinesi di Israele). I miliziani del movimento di resistenza islamica e i civili di Gaza che si sono uniti a loro non hanno fatto distinzione tra soldati e civili, adulti e bambini e neonati, per lo più ebrei ma anche alcuni non ebrei. Quel giorno sono state uccise o fatte prigioniere persone care di circa 1.400 famiglie. Ci sono prove di abusi sessuali e stupri. Altre migliaia di persone sono state ferite o si sono salvate per un pelo (il numero delle vittime di Hamas del 7 ottobre è stimato in circa mille). È considerata la peggiore sconfitta e il peggior trauma che abbia colpito gli israeliani dal 1948.

Due giorni dopo il massacro, con un grande dolore che da allora non mi ha più abbandonato, ho scritto: “In un solo giorno, i civili israeliani hanno sopportato quello che i palestinesi hanno sofferto per decenni e continuano a soffrire continuamente: invasione militare, morte, brutalità, bambini uccisi, corpi abbandonati in strada, assedio, paura paralizzante, timore per la sorte dei propri cari, la loro cattura, la voglia di vendetta, il desiderio di uccidere in massa chi è coinvolto (i miliziani) e chi non lo è (i civili), l’inferiorità, la distruzione degli edifici e la rovina di una festa o di una celebrazione, la debolezza e l’impotenza di fronte a una forza armata onnipotente, l’umiliazione pungente. Ancora una volta: ve l’avevamo detto. L’oppressione e l’ingiustizia senza fine esplodono in momenti e luoghi inaspettati. Come l’inquinamento, lo spargimento di sangue non conosce confini”.

Nella sua risposta, Israele ha agito come ci si poteva aspettare e ha cominciato subito una vendicativa campagna genocida di devastazione che è ancora in corso. Il numero di palestinesi uccisi dai bombardamenti e l’inimmaginabile portata della distruzione aumentano di giorno in giorno. Alla fine di novembre, l’esercito israeliano ha ucciso più di 44mila palestinesi, di cui più della metà sono donne e bambini. Altre migliaia di persone risultano disperse. Il numero di miliziani palestinesi uccisi in combattimento all’interno della Striscia non è noto e non è chiaro se siano inclusi nel conteggio ufficiale. Almeno la metà degli edifici di Gaza è stata distrutta dai bombardamenti e dai combattimenti tra l’esercito israeliano e i militanti di Hamas. Circa il 90 per cento degli abitanti della Striscia di Gaza, che sono circa due milioni di persone, sono stati sfollati. Decine di migliaia di persone sono fuggite dalle loro case nel nord e nel sud del paese. Tante vite preziose e tante sofferenze avrebbero potuto essere risparmiate se avessero ascoltato. Ma non l’hanno fatto.

Raccolti avariati

La seconda ragione del mio senso di sconfitta è meno personale ma non meno dolorosa: il fallimento della lotta popolare di massa contro l’oppressione israeliana. A differenza della lotta armata, la rivolta popolare non armata coinvolge tutta la popolazione: donne e uomini, giovani e anziani, operai, amministratori e studiosi, come nella rivolta tra il 1987 e il 1991, la prima intifada, e nei primi giorni della seconda intifada del 2000.

Una rivolta di massa che include molti strati sociali sarà inevitabilmente varia ed efficace attraverso diversi canali: confronto di massa con le forze di occupazione, disobbedienza civile contro la burocrazia dell’occupazione, attività culturali, iniziative di educazione popolare, campagne politiche di base, comitati popolari di sostegno e mutua assistenza, una consapevole disponibilità a sacrificare la vita normale e a correre rischi, e un’ampia partecipazione alla pianificazione e allo sviluppo della strategia a lungo termine. Tutto questo dà alla lotta un carattere democratico nella sua essenza.

Il messaggio politico di questi sforzi nonviolenti è stato respinto da Israele

Non è difficile spiegare la grande svalutazione dello status della lotta popolare tra i palestinesi: a ogni passo, la grande impresa collettiva ha prodotto raccolti avariati, a livello politico, nazionale e personale.

La prima intifada ha portato a negoziati tra palestinesi e Israele, che hanno prodotto gli accordi di Oslo. Questi dovevano essere un accordo di pace e i palestinesi erano convinti che entro il 1999 avrebbero portato a un piccolo stato indipendente accanto a Israele. Anche se stavano facendo un compromesso doloroso, essendo disposti ad accettare solo il 22 per cento della Palestina storica, sostennero gli accordi per risparmiare alle generazioni future il dolore e le privazioni di una vita sotto occupazione. Dal momento della firma, tuttavia, Israele ha sfruttato l’accordo per ostacolare qualsiasi possibilità di creare uno stato simile, costruendo insediamenti e comprimendo i palestinesi in piccole enclave all’interno della Cisgiordania, e separandoli da Gaza.

Gli attivisti che hanno aderito al principio della lotta non armata per lavorare contro l’espansione degli insediamenti, insieme agli ebrei di sinistra impegnati, sono stati e sono perseguitati dalle forze di sicurezza israeliane, che li minacciano, eseguono arresti, presentano accuse infondate e compiono violenze fisiche che causano lesioni e perfino morti.

Nel 2018 i palestinesi di Gaza hanno cominciato a protestare in massa contro l’assedio e per il diritto al ritorno nei loro villaggi distrutti e hanno continuato per più di due anni. Ci sono stati lanci di pietre, molotov e palloncini incendiari che hanno bruciato i campi al di là del confine, ma non hanno messo in pericolo vite umane. Eppure i soldati che sparavano da dietro la recinzione di frontiera hanno ucciso molti manifestanti e ne hanno feriti altri, causando disabilità permanenti e amputazioni.

Israele ha presentato la campagna della società civile per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni e l’attivismo legale internazionale contro i suoi crimini di guerra come gesti antisemiti, usando cinicamente il genocidio degli ebrei del 1939-1945 per costringere i paesi occidentali a criminalizzare l’iniziativa.

Il chiaro messaggio politico di questi sforzi nonviolenti è stato respinto da Israele e la rivolta disarmata ha avuto scarse conseguenze sugli occupanti e sull’occupazione. Il passo logico, per molti palestinesi, era chiaro: infliggere più dolore all’occupante finché non avesse capito. Questa fu la conclusione nel 2000, quando l’esercito israeliano uccise manifestanti disarmati e impose severe restrizioni di movimento a tutta la popolazione all’inizio della seconda intifada. Le organizzazioni armate palestinesi, guidate da Hamas, tornarono alle tattiche degli anni novanta per opporsi ai negoziati con Israele: attentati suicidi sugli autobus, nei mercati e nei ristoranti, che uccisero molti cittadini israeliani. Nel tempo Hamas ha sviluppato e perfezionato la sua capacità di lanciare razzi contro Israele, inviando contemporaneamente messaggi politici e religiosi contrastanti sul futuro del paese e dei due popoli che lo abitano.

Gli attentati suicidi degli anni novanta e duemila e la guerra dei razzi sono riusciti a fermare l’espansione degli insediamenti di Israele e la sua volontà di costringere i palestinesi in enclave rubandogli più terra, risorse e spazio? No, tutto il contrario. Hanno avuto successo come terrificante mezzo di vendetta, è vero, ma non sono riusciti a fermare la colonizzazione. Eppure l’aura della resistenza armata non fa che brillare di più per molti palestinesi e per i loro sostenitori nel mondo.

Corsa alle armi

Questa è la terza ragione del senso di sconfitta che mi attanaglia, come socialista femminista: il sistema profondamente maschilista di sviluppare e produrre armi, commerciarle, raccogliere i profitti e scatenarle è considerato un assioma e un punto di partenza indiscutibile sia come misura del potere nazionale, della sovranità e dell’apparente diritto alla violenza autorizzata sia come mezzo supremo e venerato di resistenza all’oppressione. Ma a differenza del cinquecento e dell’ottocento, oggi le armi e gli armamenti e qualunque corsa a riempire gli arsenali hanno la capacità di portare alla distruzione del mondo e dell’umanità in generale.

La Striscia di Gaza che conoscevamo è stata distrutta e la sua comunità è stata smantellata dalla macchina da guerra israeliana. Israele ha ucciso e ferito un numero incalcolabile di civili. Non abbiamo ancora cominciato a fare i conti con il trauma. Le persone istruite, i ricchi, chi ha contatti all’estero e ingegnosità stanno lasciando Gaza e continueranno a farlo. La ricostruzione richiederà decenni. Assisteremo mai a una svolta politica e sociale che presenterà questa terribile distruzione e la strategia di resistenza armata di Hamas come “utile”? È troppo presto per dirlo.

Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano israeliano Haaretz.

Tratto da Internazionale del 05/12/2024

https://www.internazionale.it/magazine/amira-hass/2024/12/05/le-speranze-infrante

Israele usa il suo trauma come un’arma di guerra

Una costosa produzione televisiva. Discorsi di alti funzionari. Migliaia di partecipanti dal vivo. Una dimostrazione compatta di dolore collettivo e fermezza militare. È così che il governo israeliano sperava di commemorare il primo anniversario dei sanguinosi attacchi sferrati da Hamas il 7 ottobre 2023. Ma le cose non sono andate come previsto.

Molte famiglie di persone uccise o rapite quel giorno hanno criticato l’evento finanziato con denaro pubblico, affermando che si sarebbe dovuto aspettare fino a un accordo per la liberazione degli ostaggi e all’avvio di un’indagine indipendente sugli errori commessi dalle autorità prima, dopo e durante il 7 ottobre. Alcuni genitori hanno vietato al governo di Benjamin Netanyahu di usare i nomi e le immagini dei figli.

Molti dei kibbutz colpiti hanno annunciato di voler boicottare l’evento, preferendo invece cerimonie più “intime e appropriate”, interne alle comunità, in cui piangere i propri cari e ricordare gli ostaggi. A quel punto la ministra responsabile della cerimonia ha deciso di cancellare la presenza del pubblico dal vivo, e ha liquidato le obiezioni delle famiglie delle vittime come “rumore di fondo”. Così facendo ha scatenato critiche ancora più forti sui social media, con alcune importanti celebrità israeliane che hanno espresso il loro sostegno a una commemorazione alternativa. Per il governo “tutto è spettacolo”, ha commentato Danny Rahamim, del kibbutz Nahal Oz.

Ma lo spettacolo doveva continuare. Il governo Netanyahu – e le organizzazioni ebraiche che ne amplificano il messaggio nel resto del mondo – non avrebbe mai rinunciato all’occasione di usare la forza evocativa del 7 ottobre come un megafono per raccontare ancora una volta la stessa storia sugli attentati che abbiamo già sentito così spesso. È una favola semplice, che parla del bene contro il male, in cui Israele è innocente e merita un sostegno incondizionato, mentre i suoi nemici sono tutti mostri e non meritano altro che una violenza senza limiti e senza confini, che si tratti di Gaza, Jenin, Beirut, Damasco o Teheran. È una storia in cui l’identità nazionale di Israele si fonde per sempre con il terrore del 7 ottobre, un evento che, nella narrazione di Netanyahu, s’intreccia con l’Olocausto nazista e con la battaglia per la salvezza della civiltà occidentale.

In tedesco si usa il termine Staatsraison, ragion di stato, e negli ultimi decenni per i leader della Germania quella ragione è stata proteggere Israele. Anche Israele ha una Staatsraison, collegata ma diversa. Ufficialmente è garantire la sicurezza degli ebrei. Ma una parte integrante di questa idea di sicurezza è il trauma ebraico. Lo stato costruisce santuari in suo onore. Gli alza dei muri intorno. Fa la guerra nel suo nome.

E così, com’è certo che il sole sorgerà su Gerusalemme, Netanyahu racconterà la sua storia di vendetta al mondo, e nessuna famiglia in lutto potrà fermarlo.

Gli scontri sulla commemorazione s’inseriscono in dibattiti più ampi sull’uso e l’abuso della sofferenza ebraica, conflitti che risalgono a prima della nascita di Israele e che si estendono oltre i suoi confini, notoriamente indefiniti. Sono questioni irrisolte sempre più cruciali.

Qual è il confine tra ricordare un trauma e sfruttarlo cinicamente? Tra rievocarlo e strumentalizzarlo? Cosa significa inscenare un lutto collettivo quando non c’è una collettività universale, ma solo una strettamente legata all’etnicità? E cosa significa farlo mentre Israele causa altro dolore su scala incommensurabile, facendo esplodere interi palazzi a Beirut, inventando nuovi metodi di mutilazione a distanza e costringendo più di un milione di libanesi a fuggire, mentre continua a bombardare Gaza senza sosta?

Con un conflitto regionale all’orizzonte, concentrarsi sui meccanismi con cui Israele amplifica e manipola il trauma ebraico può sembrare irrilevante o insensibile. Ma queste forze sono interconnesse, visto che le storie sulla condizione di vittima degli ebrei con cui Israele giustifica la sua violenza devastante e l’annessione coloniale non sono mai state tanto esibite. E nulla chiarisce meglio queste connessioni dei modi in cui Israele ha scelto di raccontare il trauma subìto dal suo popolo il 7 ottobre 2023, un evento che è stato rievocato senza sosta fin dal momento in cui è avvenuto.

Spettacoli, sfilate, mostre

Uno degli aspetti più rilevanti della reazione di Israele e della diaspora ebraica agli eventi del 7 ottobre è stata la velocità con cui sono stati assorbiti nella “cultura della memoria”, cioè quell’insieme di metodi artistici, tecnologici e architettonici per trasformare i traumi collettivi in esperienze didattiche, di solito in nome dei diritti umani e della pace, e contro il negazionismo o l’oblio. Di fronte alle atrocità di massa di solito passano decenni prima che una società sia pronta a fare i conti con il passato in modo onesto. Per esempio, lo storico documentario del regista francese Claude Lanzmann Shoah uscì nel 1985, quarant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale.

In Israele si è passati quasi istantaneamente a riprodurre in modo crudo gli eventi del 7 ottobre 2023 attraverso esperienze mediate, a volte con l’obiettivo di contrastare le notizie false che negavano i crimini commessi, ma spesso allo scopo di ridurre la solidarietà verso i palestinesi e di creare sostegno alle guerre israeliane.

Prima dell’anniversario del 7 ottobre era andata in scena a New York un’opera di teatro documentario intitolata October 7, basata su testimonianze reali. Inoltre sono state allestite mostre d’arte e almeno due sfilate di moda a tema “7 ottobre”, una delle quali ha portato in passerella donne sopravvissute agli attacchi o che avevano perso i loro familiari, truccate con ferite e sangue finti e vestite con abiti fatti di bossoli. Una modella il cui fidanzato era stato ucciso nell’attacco “indossava un abito da sposa bianco con un ‘foro di proiettile’ sul cuore”, ha scritto il sito Jewish News.

L’obiettivo di queste opere sembra essere trasferire il trauma al pubblico: ricreare eventi terrificanti in modo da renderli vividi e vicini

Poi ci sono stati i film sul 7 ottobre, che ormai formano un sottogenere a sé. Il primo è stato Bearing witness (Rendere testimonianza), prodotto dell’esercito israeliano, a partire dai video più terribili e scioccanti di quel giorno. A poche settimane dagli attacchi il film è stato proiettato per un pubblico selezionato di politici, imprenditori e giornalisti in molti paesi del mondo, da Davos, in Svizzera, al Museo della tolleranza a Los Angeles. È seguita una serie di documentari più professionali, tra cui Screams before silence (Urla prima del silenzio) sulle violenze sessuali, in cui la narratrice è Sheryl Sandberg, l’ex direttrice operativa della Meta; #Nova, che ha usato i video fatti con telefoni e telecamere indossabili per creare un resoconto “minuto per minuto” delle “agghiaccianti efferatezze”; e Surviving october 7: we will dance again (Sopravvivere al 7 ottobre: danzeremo ancora) della Bbc, molto simile al precedente. Il network Tbn, “la rete religiosa più seguita degli Stati Uniti”, ha trasmesso uno speciale in quattro parti sul 7 ottobre, per un totale di sette ore di programmazione.

I film di fiction richiedono più tempo, ma ce ne sono già diversi in produzione, tra cui October 7th, dai creatori della serie tv israeliana Fauda, e One day in october, una serie della Fox. Il regista israeliano Alon Daniel ha fatto la scelta inusuale di realizzare un film con delle miniature. La sua squadra ha trascorso mesi a ricreare minuziosamente una riproduzione in scala degli orrori: dalla recinzione di filo spinato sfondata da Hamas alle auto bruciate, ai bagni chimici crivellati di proiettili del festival musicale Nova. “Abbiamo stampato i modellini in 3d, li abbiamo dipinti, e inizialmente erano carini da guardare”, ha raccontato ad Haaretz un tecnico della produzione. “Ma erano altrettanto raccapriccianti. C’era una forte dissonanza tra il carino e l’agghiacciante”.

Il nostro mondo è lacerato dalla violenza e dall’ingiustizia e per questo esiste un’ampia letteratura sull’etica della rievocazione delle atrocità. Come ricordare l’orrore senza sfruttarlo? Come evitare di riaffermare l’idea che alcuni corpi sono destinati alla violenza, rendendola così più probabile? Come evitare che i sopravvissuti rivivano continuamente i loro peggiori traumi? Come prevenire una risposta traumatica in uno spettatore che è stato vittima di violenza in passato? Come prevedere un percorso di riparazione e guarigione? Come allontanare il rischio di evocare sentimenti pericolosi di odio o vendetta, che possono solo portare a nuove tragedie e traumi?

Amy Sodaro, sociologa e autrice di Exhibiting atrocity: memorial museums and the politics of past violence (Esibire le atrocità: i musei della memoria e le politiche della violenza del passato), mi ha detto: “Le persone impegnate nel lavoro della memoria si confrontano di continuo con quelle domande. È un lavoro profondamente politico”.

Durante le settimane che ho passato a fare ricerche sulla cultura della memoria emersa dopo il 7 ottobre – gli abiti da sposa insanguinati, le automobiline bruciate, i messaggi vocali ripetuti all’infinito – ho cercato le prove che qualcuno si fosse fatto quelle domande, ma invano. Allo stesso tempo non ho trovato nessuna presa di coscienza del fatto che la dinamica di alcuni eventi è ancora poco chiara, motivo per cui alcune famiglie delle vittime chiedono un’inchiesta indipendente.

A parte rare eccezioni, il primo obiettivo di queste opere sembra essere trasferire il trauma al pubblico: ricreare eventi terrificanti in modo da renderli così vividi e vicini che lo spettatore o il visitatore sente una specie di fusione identitaria, come se fosse stato violato a sua volta.

Un newyorchese che ha visto la rappresentazione teatrale October 7 ha riferito: “Mi è sembrato di vivere l’esperienza in prima persona… Mi sono sentito in quel posto”. I produttori sono rimasti così soddisfatti di questi commenti da condividerli sui social media. Una proiezione del documentario sul 7 ottobre dell’esercito israeliano “ha lasciato il pubblico devastato. La gente usciva dalla sala in silenzio, piangendo o semplicemente sotto shock”, ha detto al New York Times Jonathan Green­blatt, il direttore della Anti-defamation league. Per lui era un complimento.

Turismo macabro

Tutti gli sforzi di rievocazione mirano a toccare il cuore di chi non era presente. Ma c’è una differenza tra sollecitare una connessione emotiva e ridurre deliberatamente le persone in uno stato di shock e traumatizzarle. Proprio per raggiungere questo scopo molte rievocazioni del 7 ottobre si vantano di essere “immersive”, cioè offrono a spettatori e partecipanti la possibilità di penetrare nel dolore altrui, partendo dall’idea che, se più persone vivono il trauma del 7 ottobre come se fosse il loro, sarà un bene per il mondo. Anzi, sarà un bene per Israele.

L’obiettivo di trasferire il trauma è più esplicito che mai nel fiorente settore del “turismo macabro”. Per mesi sinagoghe e comunità ebraiche di tutto il mondo hanno sponsorizzato viaggi per portare i loro affiliati in “missioni di solidarietà” nel sud di Israele. I pullman turistici costeggiano il sito del festival Nova, pieno di piccoli memoriali delle centinaia di persone uccise e rapite. Nonostante il disagio dei residenti, i visitatori si affollano nei kibbutz ancora distrutti calpestandone le macerie.

Nel febbraio 2024 la giornalista Maya Rosen ha partecipato ad alcuni di questi tour per scrivere un articolo pubblicato sulla rivista ebraica statunitense Jewish Currents. Ha visto case sventrate preservate come mausolei, compresa quella di una coppia di ventitreenni uccisa nell’attacco a un kibbutz. Le visite guidate attraversano stanze dove “sono state stampate e attaccate alle pareti le schermate delle ultime, frenetiche conversazioni su Whats­App di [Sivan] Elkabetz con i genitori, insieme alle lettere che sua madre le ha scritto dopo che è morta”.

Questo va ben oltre il desiderio di “toccare con mano ‘la realtà’”. Debbie Lisle, studiosa della Queen’s university di Belfast, in Irlanda del Nord, aveva usato questa definizione parlando della calca di turisti che affollavano Ground zero, a New York, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Grazie all’enorme volume di comunicazioni molto personali conservate nei messaggi vocali e di testo (molte persone di quelle comunità hanno mandato messaggi e fatto telefonate lunghe ore, mentre aspettavano soccorsi che non sono mai arrivati) e all’accesso ai luoghi in cui il sangue e i segni della lotta sono ancora intatti, chi partecipa a queste visite prova quasi la sensazione di aver vissuto in prima persona l’interminabile attacco.

“Una rabbina statunitense che ha portato in viaggio la sua comunità mi ha raccontato di aver ascoltato le storie delle persone uccise, una dopo l’altra”, scrive Rosen. I visitatori sono stati informati di tutto “in tutti i dettagli, dov’è successo, com’è successo, per quante ore le persone sono rimaste chiuse nelle camere blindate, quando sono state colpite attraverso le finestre o trascinate fuori casa”. Quelle immagini le “hanno provocato incubi per cinque notti”, scrive Rosen. Un’esperienza simile è stata la Piazza degli ostaggi di Tel Aviv, dove i turisti potevano entrare in un “finto tunnel immersivo di Hamas” di cemento, lungo trenta metri. Per rivivere l’esperienza di un ostaggio, nella struttura vengono trasmessi audio di esplosioni per simulare i combattimenti in superficie.

Può sembrare difficile a credersi, data la quantità di materiale già disponibile, ma sono in arrivo altre forme di commemorazione del 7 ottobre. Anche se in Israele si aggrava la crisi economica, a settembre il governo ha approvato uno stanziamento di 86 milioni di dollari per progetti legati alla memoria del 7 ottobre e per celebrare le operazioni militari seguenti. Il denaro sarà speso per la conservazione delle “infrastrutture del patrimonio culturale” (cioè gli edifici danneggiati), la creazione di un nuovo memoriale, l’istituzione di un anniversario nazionale e altro ancora.

Nel frattempo, per chi non può andare in Israele, sono disponibili esperienze di realtà virtuale come il tour Gaza envelope 360, un video di 35 minuti, in inglese e in ebraico, che guida gli spettatori nelle comunità israeliane attaccate il 7 ottobre. In uno spezzone del tour pubblicato online, il fratello di una delle vittime guida la telecamera nella sua casa e indica il sangue sul pavimento. Anche questo è un sottogenere del 7 ottobre: una “piattaforma di narrazione immersiva” che invita i visitatori a entrare nelle case ricostruite in 3d. Spostandosi da una stanza all’altra, l’audio riproduce i messaggi di terrore inviati ai familiari dalle persone rinchiuse nelle camere blindate.

Alcune di queste esperienze sensoriali del trauma viaggiano per il mondo. La più importante (e discussa) è la Nova exhibition: un’ampia installazione, scarsamente illuminata, che riproduce il festival musicale nei dettagli – la sabbia, le tende da campeggio, le auto bruciate – per trasmettere la sensazione corporea di vivere quell’esperienza da sballo improvvisamente interrotta da una violenza terribile. La mostra, che comprende oggetti reali raccolti sul posto, a New York ha attirato più di centomila visitatori, tra cui vari politici. Ancora una volta siamo davanti a una mostra che si discosta dal modo in cui gli eventi traumatici di oggi – dalle sparatorie di massa ai disastri climatici – sono rielaborati dagli artisti.

Nell’ultimo anno alcuni dei dibattiti più accesi all’interno del movimento contro la guerra hanno riguardato la politica del lutto

Di solito si fa un lavoro meno esplicito, prestando attenzione a non riattivare il trauma nelle famiglie, a non terrorizzare i visitatori e a non mancare di rispetto ai morti. Difficilmente, per sensibilizzare contro la violenza delle armi, si portano gli spettatori nei corridoi bui delle scuole macchiati di sangue finto, tra i suoni degli spari e le grida disperate degli studenti. Una recensione del sito Filthy Dreams ha paragonato la Nova exhibition a uno strano incrocio tra un falò sulla spiaggia e una delle “case degli orrori” usate nelle congregazioni evangeliche per ammonire i giovani sui rischi del sesso prematrimoniale. “Davvero dobbiamo salire sui materassini da yoga delle vittime per provare l’orrore della gente massacrata a un festival musicale?”, si chiede la critica d’arte Emily Colucci. “Stare a cavalcioni su una sedia da giardino rovesciata fissando dei cadaveri dai contorni indistinti è davvero il modo migliore per ricordare i morti? E perché è tutto così buio là dentro? Avevo già capito che il 7 ottobre è stato terribile senza bisogno di visitare la mostra”.

C’è una grande differenza tra la comprensione di un evento, in cui si mantiene una capacità analitica e il senso di sé, e la sensazione di viverlo in prima persona. Questa non produce comprensione, ma quello che Sodaro ha definito un “trauma artificiale”, utile a favorire “un dualismo semplicistico tra bene e male, dalle forti implicazioni politiche”.

Chi partecipa a queste esperienze è incoraggiato a percepire un legame puro con le vittime, l’essenza del bene, e a trasudare odio per gli aggressori, l’essenza del male. Lo stato del traumatizzato è uno stato di emozione pura e pura reazione. La visione si restringe, come in un tunnel.

In questa condizione non ci chiediamo cosa manchi nella cornice dell’esperienza immersiva. Nel fiume di arte immersiva prodotta per commemorare il 7 ottobre quello che manca è la Palestina, nello specifico Gaza. Mancano i decenni di vite strangolate dall’altra parte del muro che hanno portato agli attacchi; le decine di migliaia di palestinesi, tra cui un numero impressionante di neonati e bambini, che Israele ha ucciso e mutilato dal 7 ottobre.

Ed è proprio questo il punto.

Quando i turisti ebrei di New York o di Montréal cercano di farsi tutt’uno con il trauma nel sito del festival Nova o in un kibbutz distrutto, sono abbastanza vicini a Gaza da sentire le esplosioni delle bombe israeliane a Jabalia e a Khan Yunis, da vederne il fumo e, in alcune giornate, da sentirne le vibrazioni nei loro corpi. Ma, come ha scritto Rosen, è come se non sentissero o non riuscissero a registrare quello che provano. Una persona dello staff che organizza questi viaggi ha osservato che i partecipanti sono “profondamente immersi nel loro trauma, e questo fa passare in secondo piano le sofferenze causate dalla guerra”.

I turisti e i partecipanti a molte esperienze cruente immersive dicono di essere lì per “testimoniare”, l’ossessione della commemorazione odierna. Ma non è chiaro cosa intendano. Quando gli esperti di atrocità di massa parlano dell’importanza di “testimoniare”, si riferiscono a un modo ben preciso di vedere. Questo tipo di testimonianza, spesso di crimini che sono stati a lungo negati o nascosti da stati potenti, è un atto di rifiuto: un rifiuto della negazione. È anche un modo per onorare i morti, mantenendo vive le loro storie e iscrivendo i loro nomi in un progetto di ricerca della giustizia per prevenire il ripetersi di barbarie in futuro.

Ma non sempre si testimonia con questo spirito. A volte la testimonianza è una forma di negazione, usata da governi scaltri per giustificare atrocità più gravi. Ristretta e concentrata solo sul proprio gruppo d’appartenenza, diventa un modo per evitare di guardare alla dura realtà di quelle crudeltà o di giustificarle attivamente. Questo tipo di testimonianza è più simile all’occultamento e, in casi estremi, può fornire una giustificazione pseudorazionale del genocidio.

Nell’ultimo anno alcuni dei dibattiti più accesi all’interno del movimento contro la guerra hanno riguardato la politica del lutto, producendo un nuovo straziante lessico del dolore. Mentre molti (me compresa) hanno pianto pubblicamente i civili israeliani uccisi il 7 ottobre, altri hanno sottolineato anche che le vite dei palestinesi sono sistematicamente trattate come “indegne di lutto” (prendendo a prestito una frase della filosofa Judith Butler). Le vite israeliane invece sono “preventivamente oggetto di lutto”, come osserva lo storico Gabriel Winant, perché “è già in azione un apparato che dà alle loro morti un significato, cioè giustificare le bombe che cadono su Gaza”.

L’antropologo libanese-australiano Ghassan Hage ha visto all’opera dopo il 7 ottobre un “lutto suprematista” perché “a differenza dei palestinesi che sono uccisi di continuo, gli israeliani uccisi erano speciali. Erano delle morti superiori, da vendicare in un modo che ricordasse a tutti, in particolare agli assassini, quanto fossero più importanti”.

La storia è piena di episodi in cui popolazioni indigene, affamate e impoverite dalle oppressioni coloniali, alla fine si ribellano

In un suo saggio lo studioso palestinese Abdaljawad Omar sottolinea che il lutto implica una distanza dall’evento traumatico, ma questa distanza non è possibile per i palestinesi che devono affrontare la furia genocida di Israele. “Finché non ci sarà un cessate il fuoco, in cui potremo cominciare il lavoro del lutto, la nostra resistenza combatterà per il diritto a piangere i morti”, sostiene Omar.

Arte e vendetta

Israele ha trasformato le sofferenze del 7 ottobre in prodotti spettacolari e turistici con impressionante velocità (e cattivo gusto). Ma anche questo non viene dal nulla. Le foto di Ground zero e degli attacchi dell’11 settembre erano state immediatamente estetizzate e trasformate in mostre. I film catastrofici erano arrivati poco dopo. Il dibattito su come commemorare gli attentati era cominciato quasi subito, così come i pellegrinaggi turistici al sito. Ma soprattutto, proprio come succede oggi in Israele, i tentativi di trasformare l’11 settembre in un’esperienza in grado di suscitare emozioni specifiche – dolore, orgoglio, patriottismo – si erano affiancati alla violenta risposta militare degli Stati Uniti. Dopo l’11 settembre i film e le serie televisive patriottiche, in cui arabi e musulmani erano quasi sempre ritratti come terroristi assetati di sangue, sono stati il fronte culturale della cosiddetta guerra al terrore e hanno svolto un ruolo fondamentale nel giustificare i peggiori abusi commessi dagli Stati Uniti, dai campi di battaglia di Falluja alla prigione di Guantánamo.

Paralleli ancora più evidenti si possono tracciare con la storia coloniale. Quando ho parlato della mia ricerca con la collega Kavita Philip, studiosa di tecnologia e letteratura, mi ha ricordato l’ondata di opere artistiche prodotta nel Regno Unito dopo la ribellione indiana del 1857. Quell’anno i soldati indiani sepoy si sollevarono contro i loro comandanti britannici nel corso di una rivolta più ampia contro il regime tirannico della Compagnia britannica delle Indie orientali. La rivolta coinvolse contadini e proprietari terrieri che non ne potevano più del dominio coloniale. Com’è successo il 7 ottobre, la forza della sommossa colse di sorpresa i suoi bersagli: i ribelli raggiunsero rapidamente Delhi e conquistarono l’arsenale britannico. Le truppe di Londra reagirono con violenza spietata, mettendo a ferro e fuoco i villaggi. Anche i soldati sepoy commisero atrocità: nell’episodio più noto, circa duecento donne e bambini britannici furono presi in ostaggio e poi massacrati.

Nei mesi successivi, nel Regno Unito emerse un sottogenere di arte propagandistica intrisa d’orrore. Schizzi, litografie e incisioni ritraevano gli asiatici ribelli come scimmie o tigri feroci, mentre le donne britanniche uccise erano figure angeliche. Giganteschi pannelli panoramici, alcuni con tableau semoventi, davano agli spettatori l’esperienza di trovarsi sul campo di battaglia: un’anticipazione a bassa tecnologia della realtà virtuale di oggi.

Anche a quei tempi la velocità fu fondamentale: mentre in India infuriavano i combattimenti, i londinesi potevano recarsi a Leicester square e, pagando uno scellino, immergersi nel dipinto panoramico di Robert Burford The action between her majesty’s troops and the sepoys at Delhi (Lo scontro tra le truppe di sua maestà e i sepoy a Delhi) o nella più cruda litografia The treacherous massacre of english women and children at Cawnpore (Il massacro a tradimento di donne e bambini inglesi a Cawnpore) di Nena Sahib.

Quelle rappresentazioni sconvolgenti alimentarono il desiderio di vendetta, rafforzando il sostegno alla repressione britannica, che comprendeva linciaggi ed esibizioni spettacolari del dominio imperiale come l’esecuzione di ribelli legati ai cannoni. Furono uccisi almeno centomila civili indiani, mentre altre centinaia di migliaia morirono per la fame e le epidemie. All’epoca i soldati imperiali non avevano TikTok per condividere le loro atrocità, ma i pittori immortalarono con vividezza i ribelli legati alle bocche dei cannoni e i vignettisti politici del Regno Unito raffigurarono l’onnipotente “Giustizia” britannica che, con la spada in mano, schiacciava dei corpi scuri sotto i suoi piedi.

La storia è piena di episodi in cui popolazioni indigene, affamate e impoverite dalle oppressioni coloniali, alla fine si ribellano e a volte commettono delle atrocità. Questo, a sua volta, diventa il pretesto dei governanti coloniali per scatenare insensate carneficine “di tutti i selvaggi”, arrivando anche al genocidio. Quando un anno fa Israele ha intensificato le sue minacce genocidarie verso i palestinesi, chiamandoli “animali umani”, alcuni studiosi di storia anticoloniale come Ghassan Hage e Shailja Patel hanno messo in evidenza questi parallelismi sui social media e su riviste accademiche minori, comparandoli alle vecchie “spedizioni punitive coloniali”, dalla Namibia al Minnesota. Raramente hanno potuto far passare questo messaggio, utile a fornire un contesto, sulle piattaforme destinate al grande pubblico in Nordamerica e in Europa.

È un peccato, perché avrebbe aiutato a inquadrare il 7 ottobre e le sue conseguenze in una prospettiva storica: non come giustificazione per i crimini di guerra di Hamas, ma come monito contro la strumentalizzazione dello shock e dell’umiliazione di Israele in funzione di un’aggressione imperialista e di gravi violazioni dei diritti. Eppure abbiamo sentito poco di queste storie soppresse. Anche gli ovvi parallelismi con l’11 settembre – molto frequenti nei primi giorni – sono rapidamente svaniti.

Al loro posto, in Israele e su gran parte della stampa occidentale, è emerso un unico riferimento storico. Mi riferisco al paragone ripetuto e persistente tra il 7 ottobre e l’Olocausto nazista. In un’inversione dei reali rapporti di forza, la similitudine fa apparire i palestinesi – che vivono senza uno stato, sotto il prolungato assedio israeliano, l’occupazione illegale e l’apartheid – come i nazisti. Invece Israele – con uno degli eserciti più potenti del mondo, sostenuto dalla superpotenza statunitense e con una chiara politica di espansione territoriale e di cancellazione della presenza palestinese – è la vittima indifesa.

Questa storia è esplosiva perché, nella mente di molti israeliani e dei loro sostenitori, il ritorno di una minaccia pari all’Olocausto giustifica praticamente qualunque reazione. Come ha scritto Abdaljawad Omar, “questa forma coloniale di lutto trasforma i palestinesi in equivalenti moderni degli amaleciti (nella Bibbia feroci nemici degli ebrei), alimentando un desiderio di potere, autonomia e militarismo incontrollato. Si genera un discorso razziale che reindirizza il dolore e la rabbia dell’Olocausto su un popolo che semplicemente viveva dove si è deciso di stabilire lo stato di Israele”.

A svolgere un ruolo di primo piano nel consolidamento di questa storia capovolta è la serie d’installazioni e opere d’arte commemorative del 7 ottobre, che seguono i metodi già collaudati in decenni di educazione e commemorazione dell’Olocausto. L’imitazione è evidente sotto molti aspetti. Si nota nella scelta tipica del linguaggio (“non dimenticare”, “mai più è adesso”, “testimoniare”). E nella decisione di creare opere “immersive” per “sperimentare” il 7 ottobre, che deriva dall’evoluzione nell’insegnamento dell’Olocausto verso la simulazione iperrealistica, dalle gite scolastiche ai vagoni di treni allestiti con gli ologrammi dei prigionieri ebrei, fino alla consegna agli studenti di finti passaporti per immaginare di essere caricati sui treni.

La fusione tra i due eventi è onnipresente. Il sito che offre il tour Gaza envelope 360 propone anche un tour di Auschwitz a 360 gradi. La mostra itinerante sul festival Nova include un’esposizione di scarpe “perse e ritrovate”, un richiamo che a pochi può sfuggire. “Le file di scarpe ricordano un allestimento simile allo United States holocaust memorial museum di Wash­ington, che simboleggia i sei milioni di ebrei uccisi durante l’Olocausto”, ha riferito l’emittente Nbc. L’accostamento è presente anche nel turismo macabro: alcuni viaggi organizzati verso il sud di Israele passano prima dalla Polonia, facendo tappa ad Auschwitz come “preparazione facoltativa alla missione”.

L’influente gruppo di sensibilizzazione Combat antisemitism movement (Movimento di lotta all’antisemitismo) ha scelto di osservare la giornata della memoria pubblicando un video girato al Memoriale per gli ebrei assassinati in Europa di Berlino. Sopra le lastre di cemento scuro che simboleggiano il massacro nazista di milioni di persone, l’“opera d’arte digitale” usa dei droni per far fluttuare un paio di pantaloni da tuta giganti macchiati di sangue finto, a simboleggiare le violenze sessuali del 7 ottobre. Altri droni sorreggono una stella gialla con la scritta: “Mai più?”. In una sola immagine, i due traumi si fondono visivamente in un grido onnicomprensivo, facendo collassare oceani, secoli, poteri, popoli e dimensioni.

Tenere aperte le ferite

Questo – bisogna riconoscerlo – è un comportamento strano. Ma non così strano come un dettaglio che ho trovato in un articolo sulla recente tendenza israeliana dei tatuaggi a tema 7 ottobre. Un artista citato su Hadassah Magazine ha detto che un cliente aveva pensato a un concept, cioè scrivere la data dell’attacco “1072023 come i numeri di serie con cui i prigionieri erano identificati ad Auschwitz”.

Alcune delle più importanti istituzioni incaricate di custodire la memoria dell’Olocausto hanno accettato di buon grado questa commistione. La Shoah foundation, che ospita un grande archivio di testimonianze video di sopravvissuti all’Olocausto, ha aggiunto una nuova categoria: “Interviste con i sopravvissuti del 7 ottobre”. Alla Marcia dei viventi di Auschwitz quest’anno gli organizzatori hanno invitato “i superstiti israeliani all’Olocausto sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre”.

“Le nostre lacrime sono sufficientemente abbondanti e i nostri cuori abbastanza wgrandi per piangere ogni vita spezzata, ogni universo”

Episodi come questi hanno spinto Marianne Hirsch, docente della Columbia university esperta di memoria e rievocazione del trauma, a scrivere un saggio in cui sfidava i colleghi di studi sull’Olocausto a mettere in discussione l’adeguatezza dei metodi basati sul trasferimento dei ricordi traumatici da una generazione all’altra (un processo che lei descrive come creazione della “postmemoria”).

Hirsch mi ha detto che il ricordo di storie traumatiche può essere trasmesso in modi che incoraggiano la guarigione collettiva e un senso di solidarietà che va oltre le divisioni. Ci sono, però, anche casi in cui per i politici all’interno di questi gruppi l’obiettivo non è la guarigione, ma mantenere vivo il trauma, nonostante il passare del tempo e il cambiamento delle condizioni. “Inizialmente gli studi sull’Olocausto si sono occupati di come mantenere aperte le ferite e trasmettere il trauma nel modo più diretto possibile”, racconta Hirsch. L’intenzione era presentare l’antisemitismo come una forza della natura inamovibile e onnipresente, un odio di categoria a sé stante (il rabbino e studioso Shaul Magid definisce questa visione del mondo “giudeopessimismo”).

Questo, secondo Hirsch, ha molto a che fare con lo stretto legame tra la memoria dell’Olocausto e il sionismo, con la creazione dello stato di Israele, altamente militarizzato, presentato come la “redenzione” dalla distruzione dell’Olocausto. In questa narrazione – dominante nelle scuole ebraiche, nei campi estivi, nelle sinagoghe e nei viaggi come quelli organizzati del programma Birthright (in cui dei giovani ebrei vanno alla ricerca delle proprie origini in Israele) – “la guarigione può avvenire solo in ‘madrepatria’”.

Così quando la patria subisce un attacco come quello del 7 ottobre, tutti i traumi – innestati nella mente delle persone con film, musei, libri di memorie e storie dell’orrore – tornano a galla e si ha la percezione di una minaccia alla propria esistenza. Se è vero che l’Olocausto può tornare in qualsiasi momento e che Israele è l’unico baluardo per evitarlo, allora “si costruisce una specie di alibi per qualsiasi cosa Israele intenda fare”, un alibi di cui abbiamo visto le orribili implicazioni negli ultimi dodici mesi.

Hirsch è molto turbata da questi accostamenti storici sia come studiosa sia come figlia di sopravvissuti. A suo avviso i paragoni diretti tra il massacro su scala industriale dei nazisti e la follia omicida scatenata per un solo giorno da Hamas “sminuiscono l’Olocausto e disonorano le vittime. Inoltre è completamente sbagliato dal punto di vista storico”. Allora perché tanti leader ebrei sembrano volere diffondere l’idea che Israele abbia subìto un Olocausto moderno, spingendosi a fare paragoni falsi e pericolosi? Da un certo punto di vista, non ha senso: la Staatsraison di Israele è essere l’unico garante della sicurezza degli ebrei di fronte all’antisemitismo, considerato come una forza primordiale della psiche umana che può scatenarsi con furia genocida in qualsiasi momento. Gli attacchi del 7 ottobre sono stati brutali, ma non hanno rappresentato una minaccia di sterminio né per gli israeliani né per il popolo ebraico. Perché allora Israele dovrebbe minare la sua missione principale promuovendo una narrazione che lo fa apparire meno sicuro?

Ecco una teoria: la ferita al cuore della nascita di Israele è che i palestinesi sono stati costretti a pagare per i crimini dell’Europa. Costretti a pagare con la loro terra. Le loro case. La loro libertà. Il loro sangue. All’infinito. Molti studiosi e politici palestinesi, da Hanan Ashrawi a Joseph Massad, l’hanno definita la “Nak­ba continua”. Tuttavia, se i palestinesi sono i nuovi nazisti o peggiori dei nazisti (come abbiamo sentito dire quest’anno), e se il 7 ottobre è un nuovo Olocausto o una sua estensione, questo pareggerebbe i conti a posteriori. In altre parole, nella nuova identità nazionale che si sta forgiando intorno a quel giorno traumatico, Israele potrebbe essere fisicamente meno sicuro di quanto ha sostenuto a lungo di essere, ma più sicuro politicamente, perché secondo questa logica non sarebbe più fondato sul crimine di pulizia etnica di un popolo che non ha mai rappresentato una minaccia esistenziale per gli ebrei. Questo significa che potrebbe portare finalmente a termine il lavoro della Nakba, e sembra che già lo stia facendo a Gaza e in gran parte della Cisgiordania.

Questo pericoloso delirio ha trovato la sua espressione più esplicita nel dicembre 2023, quando David Azoulai, sindaco di Metula, nel nord di Israele, ha raccontato in un programma radio israeliano la sua idea di cosa dovrebbe succedere a Gaza e ai 2,2 milioni di abitanti palestinesi. Secondo Azoulai, la marina israeliana dovrebbe trasportare tutti i palestinesi rimasti “sulle coste del Libano, dove ci sono già campi profughi sufficienti”, in modo che la Striscia “somigli al campo di concentramento di Auschwitz… L’intera Striscia di Gaza dovrebbe essere svuotata e rasa al suolo, proprio come ad Auschwitz”.

Poi ha aggiunto: “Facciamone un museo per far vedere a tutto il mondo cosa può fare Israele. Nessuno dovrà abitare nella Striscia di Gaza e tutto il mondo dovrà vederlo, perché il 7 ottobre è stato, in un certo senso, un secondo Olocausto”.

L’idea di usare Auschwitz per invocare oggi un nuovo genocidio, insieme alla creazione di nuovi campi di concentramento, spacciandola per un appello alla memoria, è stato troppo per le persone che gestiscono il memoriale di Auschwitz. Hanno reagito con un post sui social media: “David Azoulai sembra voler usare il simbolo del più grande cimitero del mondo come una sorta di espressione simbolica malata, odiosa e pseudoartistica. L’invito a compiere gesti che sembrano trasgredire qualsiasi legge civile, bellica, morale e umana, che può suonare come un appello a un eccidio di dimensioni paragonabili a quelle di Auschwitz, mette tutto il mondo onesto di fronte a una follia che va affrontata e fermamente respinta. Speriamo che le autorità israeliane reagiscano a questo vergognoso abuso, perché il terrorismo non può mai essere una risposta al terrorismo”.

Le autorità israeliane non hanno respinto l’incitamento di Azoulai. Forse perché, anche se i dettagli non coincidono perfettamente, Azoulai stava descrivendo quello che il governo israeliano continua a fare dopo il 7 ottobre 2023: usare un genocidio del passato per giustificarne uno del presente. Il tutto mentre i suoi sostenitori usano l’arte, il cinema, la realtà virtuale, il turismo macabro e perfino la moda per trasferire il trauma israeliano a tutto il mondo.

Contro-memoria

Hirsch chiama “memoria monumentale” questo modo di ricordare ufficiale e militarizzato. Ma c’è anche quella che, sulla scorta di Michel Foucault, l’autrice definisce “contro-memoria”: cioè le espressioni di dolore e di lutto che emergono dal basso e che sono spesso collegate alle lotte per la giustizia, la guarigione collettiva e la trasformazione. Anche in Israele ci sono gruppi di persone in grado di riconoscere che, nonostante i doppi standard e le pericolose strumentalizzazioni, il lutto è un’emozione potente, insistente e indisciplinata. Ha bisogno di incanalarsi e di essere accolto da una collettività. Il movimento IfNotNow, un’organizzazione di giovani ebrei progressisti, si è riunito negli Stati Uniti sotto lo slogan “Ogni vita, un universo”, chiedendo un embargo sulle armi, la fine degli attacchi israeliani su Gaza e dell’invasione del Libano, e la liberazione di tutti gli ostaggi e i prigionieri. “Le nostre lacrime sono sufficientemente abbondanti e i nostri cuori abbastanza grandi per piangere ogni vita spezzata, ogni universo distrutto, sia esso israeliano o palestinese. Non dovrebbe essere l’uno o l’altro. Abbiamo bisogno gli uni degli altri: gli ebrei non possono essere al sicuro se i palestinesi non sono sicuri e liberi”.

Prima che la speranza diventi più di uno slogan, servirà un racconto condiviso su come siamo arrivati a questo punto. È quello su cui si concentra l’eccezionale gruppo israelopalestinese Zochrot. Da vent’anni, senza fare troppo rumore, cerca di spiegare agli ebrei israeliani che le storie con cui sono cresciuti sono pericolosamente incomplete, perché la narrazione di trionfo e redenzione della fondazione di Israele è inestricabilmente legata all’espropriazione e all’esilio forzato dei palestinesi, la Nakba. Per questo organizzano visite nei villaggi palestinesi distrutti e spopolati, distribuiscono mappe alternative, tengono corsi e seminari e chiedono “un futuro comune per tutti gli abitanti di questa terra e per tutti i rifugiati”. In ebraico zochrot significa “ricordare” e, a differenza della ritraumatizzazione che oggi viene fatta passare per commemorazione, ricordare nel suo senso più vero significa mettere insieme i pezzi di sé frantumati e tagliati (ri-membrare) nella speranza di tornare interi. Rimembrare la terra. Rimembrare le persone esiliate dalle loro terre. Rimembrare i genocidi coloniali che ispirarono e diedero forma all’Olocausto nazista, che a sua volta diede forma allo stato di Israele. Rimembrare che Israele, che possiede l’arma nucleare, è oggi in preda a una frenesia di vendetta coloniale, in una lunga storia di precedenti spedizioni punitive coloniali, che già hanno usato l’arte e il dolore collettivo come potenti armi di annientamento.

Individuare questi fili conduttori della storia – un’operazione che lo studioso dell’Olocausto Michael Rothberg ha definito “memoria multidirezionale” – è un lavoro di rimembranza che è anche la nostra migliore speranza di uscire da un ciclo genocidario senza fine. Questo lavoro è ogni giorno più difficile perché i palestinesi devono affrontare quello che la studiosa femminista Nadera Shalhoub-Kevorkian ha descritto come il cataclisma dello smembramento nella sua forma più letterale: corpi smembrati, geografie smembrate, un corpo politico smembrato.

Intanto nelle strade di Gaza e di Beirut, le folle continuano a riunirsi in un grido di dolore per i loro morti, sapendo che nemmeno i funerali sono al sicuro dalla prossima ondata di massacri israeliani.

Naomi Klein è una saggista canadese. Insegna giustizia climatica e dirige il Centre for climate justice dell’università della British Columbia. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Doppio. Il mio viaggio nel Mondo Specchio (La nave di Teseo 2o23).

Tratto da Internazionale del 17/10/2024

https://www.internazionale.it/magazine/naomi-klein/2024/10/17/israele-usa-il-suo-trauma-come-un-arma-di-guerra